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ProjeTto Migrante

L’Istituto ha come priorità l’intervento clinico psicologico e la prevenzione dei disturbi mentali. In questa prospettiva, il nostro lavoro include l’Etnopsicanalisi e la Psicologia Interculturale, che evidenzia le difficoltà, la sofferenza d’identità e i disturbi derivanti dai processi migratori.

QUAL È LA DINAMICA PSICHICA CHE INQUADRA LA CESURA DELLA MIGRAZIONE, IL SUO IMPATTO SULLO PSICHISMO E LA TRASMISSIONE FRA LE GENERAZIONI?

Lo sbarco è l’inizio di un lungo viaggio verso l’interno del proprio mondo psichico, verso luoghi e stati della mente che riattivano nuclei della vita psichica, spesso dolorosi, senza forma e senza struttura, portando angosce sconosciute che sollecitano una riorganizzazione del sentimento d’identità.

Si impongono delle riflessioni relative alla soggettività, visto che colui che migra deve affrontare la terra straniera alla ricerca dell’immaginario desiderato, che Freud postula come fantasmi e reminiscenze magiche naturali dello psichismo, facendo dell’idealizzazione il reo di questo processo. Se questa esperienza viene elaborata correttamente e s’iscrive in una logica e in un ordinamento, essa può costituire un fattore di crescita del mondo interiore, eliminando attaccamenti e stili di vita fossilizzati, ampliando gli orizzonti senza la perdita dell’identità di riferimento.

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Migrare, in termini psicologici, significa affrontare esperienze di separazione, rompendo con il senso di continuità e di sicurezza del mondo interiore ed esteriore. Il migrante lascia i suoi riferimenti e il suo universo conosciuto, dalle risposte più automatiche fino ai valori sottilmente appresi, ma porta nel bagaglio i simboli che lo riconducono alla sua origine. Tuttavia, la mancanza di riferimento della strada, la perdita del contatto con i sapori, gli aromi, i colori consueti che cambiano con il clima e la geografia, sommati all’obbligatorietà di corrispondere a status e ruoli identificati, costituiscono una sfida che merita attenzione, nella misura in cui tale costituzione avverrà senza i gesti, i codici e le espressioni familiari.

La separazione/sradicamento pone la questione di quali meccanismi di difesa si mettono in campo affinché il migrante possa proteggersi e rispondere agli impatti sulla sua identità derivanti da questo momento di turbolenze emotive.

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Una delle difese più evidenti è la negazione della separazione, che può prendere la forma di una tendenza a rinchiudersi nelle proprie origini e tradizioni, della difficoltà d’apprendimento della lingua del paese d’accoglienza, di una forte idealizzazione del paese di origine o, inversamente, di una idealizzazione del nuovo paese, disprezzando la propria storia.

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Ancora oggi ricordo l’angoscia di una signora italiana indirizzatami dal suo cardiologo. Lei iniziò il suo percorso analitico in preda a una profonda depressione. Nonostante abitasse in Brasile da quasi 17 anni, si rifiutava a parlare in portoghese. Soffriva di dolori in tutto il corpo, ipertensione arteriosa e problemi alla pelle. Traeva un grande sollievo dall’idea della morte. Pensava soltanto a “tornare a casa”, come diceva sempre. Viveva praticamente in dieta relazionale, ancorata a valori del passato, in attrito, praticamente quotidiano, con i suoi figli e nipoti. Presentava un mutismo selettivo extrafamiliare, negandosi perfino al contatto con le occupazioni quotidiane che avessero a che fare con “l’estraneo”. Viveva in un grande isolamento, nonostante la famiglia le offrisse un appoggio costante. Attraverso la non comunicazione col mondo esterno, lei creava una frontiera per proteggersi dal nuovo che la disorientava e riattivava esperienze passate.

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Se il soggetto dispone della capacità di elaborazione, potrà vivere una rinascita della propria capacità creativa e acquistare una certa conoscenza di se stesso e degli altri. Tuttavia, se le esperienze emotive non vengono identificate, esse si possono presentare sotto forma di sintomi, spesso non percepiti dall’individuo come derivanti dal suo stato emotivo, a causa della cesura della migrazione. Tali sintomi possono includere l’isolamento, lo stato depressivo e malinconico, la paura, l’insonnia, la sensazione di perdita dell’identità, dolori fisici, “vaghi dolori al cuore”. In situazioni traumatiche si perde la capacità di sognare, con l’indebolimento di uno dei sistemi dell’apparato psichico, il preconscio, il quale, davanti all’impossibilità di adempiere al suo ruolo di luogo di rappresentazioni di parole, può produrre certi stati confusionali o di crisi acute di angoscia, nonché fenomeni tipici del lutto, che possono sfociare nella ripetizione, un’eredità che viene tramandata alle generazioni successive.

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Pensare il nomadismo come un fenomeno del passato che si ripropone con le caratteristiche e le modalità diversificate dei tempi odierni ci rimanda al tema dell’identità. Ma che cos’è l’identità dal punto di vista psicodinamico? La parola “identità” esprime e condensa molti significati: la permanenza psichica, il mantenimento di un equilibrio stabile, una delimitazione che permette un’esistenza coesa e separata, un insieme di tratti che permette l’individuazione, il riconoscimento, la distinzione e via di seguito. Siamo costituiti da una doppia dimensione di continuità e cambiamenti, alla ricerca di una realtà psichica e di uno schema corporeo che Freud chiamava la “limpida coscienza dell’identità interiore”, insieme ad una dimensione che include il gruppo e la cultura. Tuttavia, la complessità dei fenomeni che coinvolgono la costituzione dell’identità per lo più rimangono nell’inconscio. Soltanto nei casi in cui le condizioni esterne o interne provochino uno sconvolgimento nel nostro senso della continuità, questa parte del nostro “doppio”, che era rimossa nell’inconscio e fino ad allora sconosciuta, può emergere. Questo ci porta a considerare un’altra premessa freudiana, secondo cui “non siamo padroni in casa nostra”.

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In certe situazioni la migrazione può riaccendere un conflitto. Tutto dipende dal materiale che era ritenuto nell’inconscio e dal livello di vulnerabilità dell’individuo nel momento in cui avviene una situazione di disperazione. Come dice Warren Buffetti: “Quando scende la marea si vede chi stava nuotando nudo”.

Questo momento esige da noi una buona capacità di pensare, di contenere le fluttuazioni verso la costruzione di una nuova soggettività, di un’identità transazionale capace di tollerare i paradossi naturali del processo.

Un grande studioso dei disturbi della capacità di pensare, lo psicanalista W. R. Bion, costruì un modello archeologico di grande valore, Il Cimitero Reale di Ur (attuale Iraq), sulla morte e il seppellimento di un re. Il corteo reale era costituito dalla regina, da principi, principesse e alcuni servi della corte. In esso tutti si drogavano con l’hascisc e, a suon di musiche, danzando, indossando gli abiti ed i gioielli più preziosi, scendevano una rampa in direzione della fossa della morte, una camera funeraria reale in cui, una volta addormentati, venivano seppelliti vivi dai sacerdoti della città di Ur, la leggendaria patria di Abramo.

I processi migratori possono attivare certi strati archeologici delle nostre rovine mentali. Le barriere mentali provenienti dal mondo delle memorie possono chiudere il presente e impedire il cammino di colui che osa attraversare il confine della mente. Questo taglio, come il taglio della nascita, può esporre il bebè-migrante a delle esperienze di fragilità. Questi impatti provenienti dalla realtà del processo di separazione hanno bisogno di un continente che sia capace di ricevere, digerire e disintossicare le angosce, disattivando i meccanismi di difesa inadeguati.

L’accoglienza, l’ospitalità e l’accettazione di ciò che il migrante ha di singolare, che significa molto di più che essere benvenuto, e che consiste cioè nell’apertura di tempo e spazio affinché l’altro possa adempiere alla propria esistenza senza fratture nel campo etnoculturale, rendono possibile lo sviluppo del sentimento di gratitudine, necessario per la partecipazione e la semina del bagaglio intellettuale e personale nella costruzione del terzo elemento, frutto dell’incontro fra le intersoggettività. Tutti questi fattori, sommati all’introiezione di esperienze emotive positive, fungeranno da propulsori nel conflitto temporaneo della divisione dell’identità e nell’incontro del materiale ritenuto nel nostro archivio di memoria, che era represso nelle rovine del nostro cimitero di Ur interno.

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Considerando la società come un’organizzazione economica, politica, sociale e libidica, la migrazione mette in gioco la capacità dell’individuo di sviluppare il suo sentimento di appartenenza nel riavere il suo senso di continuità di fronte a questa interruzione somatopsichica, la capacità di superare il suo fissismo culturale nell’incontro con realtà diverse da quella che ha strutturata in se stesso, e l’entrata in uno spazio di creatività. Possiamo pensarla come una tappa nella preparazione di chi osa attraversare i confini. Colui che si espone a un’esperienza emotiva deve tenere in mente che attraverserà delle turbolenze nell’affrontare le discontinuità inerenti al processo di crescita mentale.

Per affrontare questi aspetti, l’etnopsicanalisi e la psicoterapia interculturale forniscono strumenti di lettura e d’intervento. Si tratta di un dispositivo di cure che integra la dimensione psichica e  culturale di tutta la disfunzione derivante dal processo migratorio, costruendo spazi intermediari fra cultura e psiche che favoriscano la narratività. Può essere considerato come un sistema di sondaggio in grado di aprire nuovi territori della mente, creando elementi che possano favorire le aree di conflitti da essere nuovamente sognate, rendendo possibile al migrante un “divenire ciò che si è”, in un autentico accordo con se stesso nel cammino del rimpatrio del corpo in questo interscambio di significati.

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